Dare una stangata (o essere stangato)

Il ragionier Piombini era fuori di sé: aveva appena appreso che il suo collega di stanza sarebbe stato promosso al grado superiore; mentre lui, più anziano, era fermo al settimo livello.
Era invidioso, quindi, e trascorreva le giornate pensando a come poter stangare il suo “amico”, vale a dire a quale ostacolo frapporre per impedirgli l'avanzamento di carriera. Un giorno fu sorpreso dal figlio mentre ad alta voce diceva fra sé e sé: “devo dargli una stangata, devo dargli una stangata”.
Il figlio corse nel ripostiglio, prese una stanga di legno e, con aria trionfante, la porse al padre: «Ecco la stanga, papà, puoi toglierti la soddisfazione». Ci volle tutta la pazienza del padre per convincere il figliolo che egli intendeva dire una stangata metaforica.
«Donde viene, allora, questo modo di dire?», chiese con evidente interesse il giovinetto. «Innanzi tutto — cominciò il padre — essere o venire stangato significa ricevere un colpo, in senso figurato, da cui è molto difficile risollevarsi; subire un rovescio di fortuna; essere fermato da un ostacolo o da un provvedimento che taglia le gambe in una determinata attività.
Per esempio, tuo fratello ha ricevuto una stangata a scuola perché è stato bocciato; la stangata, vale a dire la bocciatura, è l'ostacolo che non ha permesso a Giulio di essere ammesso alla classe superiore».
L'espressione si rifà a un'usanza antica: un tempo nei magazzini dei mercanti che dichiaravano il fallimento si inchiodava una piccola stanga di legno, con i bolli dell'ufficio preposto, per indicare che erano stati chiusi al commercio, di conseguenza i mercanti avevano cessato l'attività.
Di qui, per l'appunto, l'uso figurato dell'espressione.

21-10-2020 — Autore: Fausto Raso — permalink


La lingua acidula della stampa

Se, per ipotesi, tra le molte leggi e leggine se ne varasse una che interdicesse le persone con scarsa padronanza della lingua italiana — vogliamo peccare di presunzione — dallo scrivere moltissime penne della carta stampata (e no) dovrebbero cambiare mestiere. Sì, proprio così.
Siamo rimasti scioccati nel leggere su un quotidiano che fa opinione il termine interditore in luogo della forma corretta interdittore (con due t). Diciamo subito — a scusante dell'autore (una così detta grande firma) del pezzo incriminato — che alcuni vocabolari non registrano la parola in oggetto. Ciò non significa, però, che colui che scrive per il pubblico — diffonde, quindi, la cultura — sia esentato dal conoscere la corretta grafia dei termini che adopera.
Interdittore, cioè proibitore, viene dal latino interdictor e divenuto in italiano interdittore, appunto, per la legge linguistica dell'assimilazione: la consonante c è stata assimilata dalla t. L'assimilazione — forse è bene ricordarlo — è un processo linguistico per cui dall'incontro di due consonanti la prima diventa uguale alla seconda, cioè si assimila.
Diverso, invece, è il caso dell'aggettivo brettone — che le solite grandi firme scrivono erroneamente con una sola t. La forma corretta è con due t (brettone), non perché in questo caso entra in vigore la legge dell'assimilazione linguistica, ma perché il termine viene dal tardo latino britto, brittonis dove la doppia t è insita nella radice. Bretone, con una sola t e che alcuni ritengono grafia corretta, è l'italianizzazione del francese breton. Gallicismo che sconsigliamo vivamente se si vuole scrivere e parlare la lingua di Dante in modo corretto.
Un'altra prova di quanto affermiamo si ha leggendo questo titolo di un giornale in rete: «Torino, superati i valori di monossido e di acido cloridico». In questo caso il redattore titolista ha dimostrato di aver frequentato con scarso profitto le aule scolastiche. L'acido in questione si chiama cloridrico, il nome è composto, infatti, con il sostantivo cloro (non schiettamente italiano derivando dal francese chlore) e il suffisso -idrico.

20-10-2020 — Autore: Fausto Raso — permalink


Reliquario, voce popolare

I lettori ci perdoneranno se mettiamo ancora in evidenza gli orrori linguistici che quotidianamente ci propinano i massinforma (mezzi di comunicazione di massa). Ma non possiamo fare altrimenti.
I giornali vengono letti da tutti, così come i notiziari radiotelevisivi vengono ascoltati da tutti, per questo motivo i responsabili delle varie testate hanno il dovere, sì il dovere morale, di usare la lingua in modo corretto.
Ecco due titoli di un quotidiano in rete dove due strafalcioni fanno bella mostra di sé: «Lascia due reliquari rubati sull'altare e scappa Torino, una bancarella della droga davanti a una discoteca del lungopo» Vediamo, nell'ordine, le due smarronate.
Si scrive reliquiario, non reliquario (voce prettamente popolare), perché il termine proviene da reliquia, non reliqua. Quanto al fiume Po, in questo caso va accentato: lungopò.
Vediamo, in proposito, Il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, e il Treccani. Se i titolisti si fossero immersi nel mar dell'Umiltà, consultando un buon vocabolario, ci avrebbero risparmiato queste nefandezze linguistiche.

19-10-2020 — Autore: Fausto Raso — permalink