Fuori: di o da?
Sulla preposizione (semplice o articolata) che deve seguire la preposizione impropria fuori i vocabolari non sono tutti concordi e i linguisti si accapigliano: di o da? Fuori di o fuori da? Ci vediamo fuori del portone o fuori dal portone?
Personalmente seguiamo — senza se e senza ma, espressione tanto cara ai politici che frequentano i vari salotti televisivi — le indicazioni dell'illustre glottologo Aldo Gabrielli, la cui fede linguistica non può esser messa in discussione: «Fuori si unisce al suo termine soltanto con la preposizione di: fuori di casa, fuori dei piedi, fuori dell'uscio e simili. Mai con la preposizione da, anche se non manca qualche esempio antico; perciò non diremo fuori da sé, fuori da casa, fuori dai piedi».
Gli fa eco il linguista Vincenzo Ceppellini, che nel suo Dizionario Grammaticale scrive: «Preposizione che indica distanza o esclusione. È seguita dalla preposizione di: “Son rimasto fuori di casa"; “È uscito fuori di strada" (sebbene si trovi talora: fuori strada)».
Come dicevamo, alcuni vocabolari ammettono solo la preposizione di; altri, salomonicamente, consentono tanto la preposizione di quanto la preposizione da. Che fare? Seguite ciò che vi suggerisce il vostro istinto linguistico.
La Crusca sembra essere dalla nostra parte.
Confessare il cacio...
... cioè dire la verità. Ecco un altro modo di dire non più di moda e relegato, quindi, nella soffitta della lingua. L'origine dell'espressione non è molto chiara, sembra sia tratta da una novella che narra di alcuni fanciulli che avevano rubato il cacio, ma non volevano ammetterlo, alla fine, però, sotto pressione, per paura di essere puniti se avessero continuato a mentire, confessarono il cacio, cioè dissero la verità.
Benedetto Varchi, nel suo “Ercolano", spiega: «Di coloro i quali (come si dice) confessano il cacio, cioè dicono tutto quanto quello che hanno detto e fatto a chi ne gli domanda, o nel potere della giustizia, o altrove che siano, s'usano questi verbi, eccetera».
Secondo un altro autore, Ludovico Passarini, il modo di dire potrebbe derivare dal fatto che «alle putte, o gazze, o cecche si dà da mangiare il cacio perché si crede che le faccia cinguettar meglio, rendendo più agile la loro linguetta e più atta a ripetere l'umana parola. D'onde potrebbe inferirsi che confessare il cacio, detto di chi confessa il vero, sia modo tratto ironicamente da esse putte, quasi dicesse ... gli è venuta la parlantina; confessa con ciò di aver mangiato il cacio; e quindi più semplicemente confessare il cacio per dire la verità».
Passare il quarto d'ora di Rabelais
Vi è mai capitato, cortesi lettori, di provare sulla vostra pelle il quarto d'ora di Rabelais? Di trovarvi, cioè, in un momento difficile, in una situazione critica?
In particolare, gentili amici, di dover pagare senza avere i soldi o di dover rendere conto di qualcosa senza averne i mezzi? P. M. Quitard così spiega questo modo di dire: «si racconta che Rabelais si trovava a Lione e non aveva i soldi per pagare la stanza presso la quale aveva preso alloggio. Aguzzato l'ingegno, dispone sul tavolo, in bella mostra, alcuni pacchetti con sopra scritto: polvere per il re, polvere per la regina, polvere per il delfino. L'oste, credendo di trovarsi di fronte a un avvelenatore, non ci pensò due volte e lo denunciò.
Il curato di Meudon (Rabelais) fu immediatamente arrestato e condotto, sotto buona scorta, a Parigi. Dopo tante peripezie fu ammesso al cospetto del re Francesco I.
Questi, che ben conosceva l'indole mattoide del suo suddito, comprese tutto, ringraziò i gendarmi di Lione per avere svolto in modo encomiabile il loro dovere e invitò a pranzo... l'avvelenatore».
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