Gli autoblindi
Abbiamo avuto bisogno di un cardiotonico quando — qualche giorno fa — su un giornale di provincia (ma che fa opinione) abbiamo letto che, per un'esercitazione militare, la città era stata invasa dagli autoblindi. Il cronista non ha avuto dubbio alcuno: autoblindo, sostantivo terminante in "-o" è maschile e, in quanto tale, nella forma plurale muta la desinenza -o in -i.
Come si dovrebbe sapere, invece, il sostantivo in oggetto è di genere femminile essendo la forma troncata di autoblindomitragliatrice. Poiché abbiamo la mania di potare le parole, da autoblindomitragliatrice sono stati fatti nascere i termini autoblindo e autoblinda, entrambi femminili, come la parola madre che li ha partoriti.
I problemi sorgono quando si deve fare il plurale se non adoperiamo la parola madre in quanto va da sé che il plurale è, regolarmente, "autoblindomitragliatrici". Per le forme accorciate — fermo restando il fatto che sono sempre di genere femminile, anche se qualche vocabolario dà maschile autoblindo, occorre fare un distinguo: autoblindo resterà invariato, le autoblindo, sul modello di le radio, le moto, le foto ecc. Autoblinda, invece, prenderà la normale desinenza plurale "-e": le autoblinde.
Per evitare dubbi e non incorrere in strafalcioni come gli autoblindi, non sarebbe meglio dire e scrivere un'autoblindata con mitragliatrice, con il normale plurale? C'è anche da dire, però, che molti dizionari non sono d'aiuto nel dissipare il dubbio che inevitabilmente ti assale quando devi pluralizzare il sostantivo in oggetto.
Uno dei tanti vocabolari che abbiamo consultato riporta: «autoblinda (o autoblindo), sostantivo femminile»; non specifica, però, che la forma in parentesi (autoblindo) nel plurale resta invariata. Ma tant'è.
Forse pretendiamo troppo dai dizionari, che non possono sopperire a tutte le deficienze linguistiche, questo è compito della scuola. E la scuola odierna (e l'università), non ci stancheremo mai di ripeterlo, non sempre ha docenti degni di tale nome. Una riprova? Un'amica giornalista ci ha raccontato, in proposito, una cosa che ci ha lasciato senza parole: una sua insegnante di lettere le spiegò la regola del qual è a modo suo.
Qual è, si sa, è un troncamento, quindi non si apostrofa. Per la docente, invece, si apostrofa davanti ai sostantivi femminili: qual'è la tua penna? Se questi sono i pilastri della scuola non lamentiamoci, poi, se i giornali sono pieni di strafalcioni.
Dai fili alle fila
Quante volte, leggiamo (e ascoltiamo nei servizi radiotelevisivi) che il deputato X è uscito dalle fila del partito in cui militava da anni? Questo strafalcione grida vendetta. Si deve dire, correttamente, appunto, le file. E vediamo il motivo.
In lingua italiana esiste un sostantivo femminile singolare, fila, vale a dire serie di persone o cose piú o meno allineate una dietro l'altra (la fila all'ufficio postale, per esempio) con il regolare plurale file.
Diremo, quindi, che, in occasione dei saldi, davanti a quel negozio si sono formate lunghissime file, (non fila) di persone che attendono di poter entrare; diremo, anche, che i militari rompono le file, cioè il loro allineamento.
Vi è poi — e qui nasce l'errore-equivoco — una altro sostantivo di genere maschile, filo, esattamente il prodotto di una filatura (un filo di lana, di cotone ecc.), con due distinti plurali, uno maschile e uno femminile: i fili e le fila. È, quindi, un sostantivo così detto sovrabbondante, abbonda, cioè di plurali: uno regolare maschile, l'altro irregolare femminile. Non si usano, però, tirando la monetina: testa i fili, croce le fila.
Il plurale piú comune e, quindi, piú usato è quello regolare maschile (i fili): i banditi hanno tagliato i fili del telefono; la contessa sfoggiava una collana con quattro fili di perle; si sono sfilati i fili delle calze. L'altro, quello irregolare femminile (le fila) si adopera in senso collettivo per indicare piú fili presi assieme: le fila del formaggio. Ma piú spesso in senso traslato o figurato: le fila della congiura.
Abbiamo, quindi, le file del partito (non le fila) in quanto un partito è formato, idealmente, da tante persone allineate una dietro l'altra. Queste persone, dunque, compongono le file del partito, come i militari compongono le file di una compagnia.
Alleluia, alleluia
Sulla deriva della lingua italiana proponiamo un nostro modesto articolo pubblicato qualche anno fa sulle colonne del quotidiano Il Giornale d'Italia, dove eravamo titolari di una rubrica di lingua. Anche se datato il contenuto dell'articolo ci sembra di una spaventosa attualità.
Finalmente una notizia che potremmo definire "storica" e che attendevamo da tempo: l'Accademia della Crusca lancia un grido d'allarme sulla sciatteria linguistico-grammaticale che inesorabilmente sta dilagando nella lingua italiana scritta. Sotto accusa libri e giornali dove frequenti sarebbero imprecisioni ed errori.
Alleluia, alleluia. Non siamo piú i soli, noi, umili linguaioli, nella battaglia che da tempo combattiamo — da queste colonne — per ridare dignità alla lingua di Dante, un tempo idioma gentil sonante e puro — per usare le parole di Vittorio Alfieri — ridotta dai così detti operatori dell'informazione (soprattutto quelli sfornati dalla scuola odierna) a un'accozzaglia di parole errate maritate a un barbarismo inopportuno.
Nella sua disamina il presidente della Crusca fa l'esempio della e verbo scritta il piú delle volte con l'accento acuto in luogo di quello corretto, che deve essere grave (è). Ancora. «Non di rado — prosegue il numero uno dell'Accademia — si fa confusione fra il se congiunzione e il se pronome personale, al punto che l'accento viene messo dove non va, oppure viceversa e talvolta non appare mai in ogni caso».
Ne approfittiamo per ribadire — ancora una volta — che il sé pronome deve essere sempre accentato, anche quando è seguito da stesso e medesimo (sé stesso, sé medesimo). La legge scolastica, riportata da alcune grammatiche, secondo la quale se medesimo e se stesso non si accentano è priva di fondamento; è, insomma, una legge arbitraria e, in quanto tale, non va rispettata.
Quanto alla doppia b in parole come obbiettivo o obbiezione — fa notare sempre il presidente della Crusca — «non è un errore, ma è meglio una sola b così i termini appaiono piú vicini alla radice etimologica latina». Alleluia, lo andavamo predicando da anni, unica voce, e sempre inascoltata.
Non sappiamo se nella "denuncia" dell'alto rappresentante della Crusca siano compresi i barbarismi di cui sono infarciti, sempre di piú, gli articoli redatti dai così detti giornalisti che fanno la lingua... Amici della carta stampata e no, basta con l'anglofilia! Adoperate la lingua madre e, possibilmente, in modo corretto.
Tremiamo al pensiero che i giovani che si avvicinano per la prima volta al mondo dei giornali possano leggere frasi del tipo l'aereo è decollato alle 14,30, in cui sono evidenti due strafalcioni: uno mortale, l'altro veniale. L'errore mortale è l'uso dell'ausiliare essere con il verbo decollare; quello veniale è rappresentato dalla virgola che separa l'ora dai minuti.
Fior di giornalisti — come usa dire — ignorano completamente le norme grammaticali che regolano l'uso dei verbi intransitivi che indicano un moto fine a sé stesso. L'aereo ha decollato, questa la sola forma corretta. Quanto alle ore si scrivono separate dai minuti da un punto o da due punti, non dalla virgola perché non si tratta di numeri decimali (14.30 o 14:30).
Queste stesse firme scrivono fidejussione, con tanto di j, ignorando che il termine proviene dal latino classico, che non conosce la j ma solo la normale i: fideiussione. È lo stesso caso di sub judice, che si scrive con la i non con la j.
Che cosa fare allora? La Crusca, per bocca del suo presidente, dice «bisognerebbe che qualcuno avesse autorità di intervenire sugli autori e sulle tipografie in modo da utilizzare un sistema grammaticale omogeneo. Ma in Italia, a differenza della Francia, non esiste nessun organismo che regolamenti la lingua e così se ne subiscono conseguenze negative che influiranno sul patrimonio linguistico».
Ci consenta il presidente della Crusca, non è necessaria (anche se auspicabile) la nascita di un organismo, è sufficiente che la scuola sforni futuri giornalisti che conoscano la lingua, vale a dire che abbiano studiato — con la massima serietà — la grammatica e la sintassi. Purtroppo non è così.
Dobbiamo constatare il fatto che i giovani usciti dalla scuola di oggi non sanno distinguere un avverbio da un aggettivo e confondono l'apostrofo con il troncamento. C'è da dire, però, che la deriva della lingua non è da imputare solo alle nuove leve dei giornali, anche se in queste alberga molta presunzione. Ci sono docenti che insegnano la lingua italiana pur non conoscendola...
Dimenticavamo. Anche "alleluia" si scrive con la "i".
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