Maratona: i km si coprono o si percorrono?

Se apriamo un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana alla voce coprire, leggiamo: «rivestire con qualcosa per nascondere; e, in senso figurato, anche occultare, dissimulare, soddisfare, pareggiare, occupare, tenere, riempire, difendersi, percorrere (riferito al tempo impiegato), eccetera».
Orbene, anche se i dizionari ammettono la correttezza del verbo coprire nei suoi significati figurati, noi non possiamo trattenere un sorriso quando leggiamo sulla stampa che «il corridore ha coperto i pochi chilometri che lo separavano dal traguardo in 20' e 15''». Ci riesce difficile allontanare dalla nostra mente l'immagine del corridore che, metro per metro, copre il percorso con un tappeto non curandosi del tempo che l'operazione richiede, a tutto vantaggio dei suoi avversari.
Ci riesce difficile anche immaginare (ma non molto in questo caso) come una persona abbia potuto coprire per quindici anni il posto di ministro, incollata con il posteriore sulla poltrona.
Sarebbe il caso — a nostro modestissimo modo di vedere — che gli amanti del bel parlare e del bello scrivere non si facessero plagiare dai massinforma (giornali e radiotelevisioni) e tenessero le parole, o meglio i sinonimi del verbo coprire, a bagnomaria — come si usa per le pietanze — e di scolarli caldi caldi nel momento opportuno.
Diremo correttamente, quindi, che il corridore ha percorso i pochi chilometri in 20' e 15'' e che quella persona ha occupato oppure ha tenuto per 15 anni il posto di ministro (non da ministro, come spesso si legge in articoli delle così dette grandi firme: si tratta, infatti, di un normale complemento di specificazione); così diremo che pareggeremo le spese sostenute, non le copriremo.
I lettori che seguono le nostre modeste noterelle non potranno di certo — crediamo — essere coperti di ridicolo.

25-02-2021 — Autore: Fausto Raso — permalink


Su qui e su qua...

Tutti ricorderanno la canzoncina scolastica: su qui e su qua l'accento non va, su lì e su là l'accento ci va. Pochi, crediamo, ricorderanno la ragione. Ci permettiamo di rinfrescare loro la memoria, anche perché ci capita sovente di leggere sulla stampa gli avverbi di luogo qui e qua con tanto di accento.
Una regola grammaticale stabilisce, dunque, che i monosillabi composti con una vocale e una consonante non vanno mai accentati, salvo nei casi in cui si può creare confusione con altri monosillabi ma di significato diverso come nel caso, appunto degli avverbi di luogo e che, se non accentati, potrebbero confondersi con li e la, rispettivamente pronome e articolo-pronome.
Un'altra legge grammaticale stabilisce, invece, l'obbligatorietà dell'accento quando nel monosillabo sono presenti due vocali di cui la seconda tonica: più; giù; ciò; già ecc. Dovremmo scrivere, quindi, quì e quà (con tanto di accento). A questo proposito occorre osservare, però, che la vocale u quando è preceduta dalla consonante q fa da serva a quest'ultima; in altre parole la u, in questo caso, non è più considerata una vocale ma parte integrante della consonante q.
Si ha, per tanto, qui e qua senza accento perché — per la legge sopra citata — i monosillabi formati con una consonante e una vocale respingono l'accento grafico (scritto): me; te; no; lo; qui.

24-02-2021 — Autore: Fausto Raso — permalink


Merenda

Di nuovo in tema di etimologia, vediamo come è nata la merenda che — come sappiamo — è una piccola colazione che si fa, generalmente, nel pomeriggio, tra il pranzo e la cena. Diamo la parola, in proposito, a Lodovico Griffa. Uno dei castighi per i ragazzi era la privazione della merenda.
Non discutiamo qui se questo castigo corrisponda ai canoni di una corretta pedagogia; fermiamoci invece a considerare come esso ci riveli un certo modo di pensare a proposito della merenda. Chi ricorreva a questa punizione non intendeva certo privare il ragazzo di una cosa che gli fosse indispensabile o che gli venisse per diritto insopprimibile. Semplicemente pensava di non potergli concedere una cosa, che, essendo un di più, il ragazzo doveva meritarsi e che nvece con il suo comportamento non aveva meritato.
La parola merenda, infatti, significa proprio cose da meritare (è pari pari il gerundivo latino merenda, da merere, meritare, propriamente cose da meritarsi per cibo. I nostri buoni vecchi dunque vedevano la merenda pomeridiana (che gli adulti usualmente non consumano) non come un pasto indispensabile ma come un premio aggiunto al normale nutrimento: in quanto premio, essa si concedeva solo a chi l'aveva meritata.
I pedagogisti, gli igienisti, i pediatri ci diranno se effettivamente la merenda vada considerata a questo modo; di fatto però nei tempi andati il concetto che si aveva, tradito proprio dal nome merenda era questo.
Sempre per gli amatori dell'etimologia, ricordiamo che dal verbo merere derivano alcune parole di uso comune quali meritare, merito, emerito e meretrice. Quest'ultimo vocabolo è il latino meretrice(m) e propriamente vale colei che merita un compenso, che si fa pagare, che guadagna (per le sue prestazioni). Da quest'ultimo termine discende, inoltre, l'aggettivo e sostantivo meretricio, con il plurale, si badi bene, meretrici per il maschile e meretricie per il femminile. Questa distinzione di plurali vale — ci sembra superfluo chiarirlo — solo quando il vocabolo è in funzione aggettivale.

23-02-2021 — Autore: Fausto Raso — permalink