Andare in oca
Quel giorno il prof. Siliconi peccò proprio di narcisismo linguistico — sbalordendo i suoi alunni — quando disse di non aver portato i componimenti di italiano, che aveva corretto a casa, perché era andato in oca. Per non tediarvi oltre diciamo subito, gentili amici blogghisti, che questo idiomatismo significa dimenticarsi, scordarsi.
Alcuni insigni Autori lo fanno derivare — ma noi, francamente, non vediamo il nesso e l'origine del modo di dire resta, sempre per noi, sconosciuta — dall'antico gioco dell'oca.
Questo si svolge tra più persone con due dadi e un cartellone dove sono disegnate, a spirale, da 63 a 90 caselle numerate; il punto segnato dai due dadi lanciati indica il numero delle caselle che il giocatore percorre in ogni giro; determinate caselle — particolarmente quelle che recano la figura di un'oca — comportano alcuni vantaggi, altre impongono soste e retrocessioni. Vince il giocatore che arriva primo alla casella finale.
Restando in tema di oche c'è da dire che non tutti sanno — forse — che questa parola adoperata come termine di similitudine, con evidente allusione alla proverbiale goffaggine, stupidità e rumorosità dell'oca, appunto, può essere riferita anche a un uomo: Giovanni è proprio un'oca!
In senso figurato, quindi, si dice che una persona (uomo o donna, dunque) è un'oca quando si vuole mettere in evidenza la limitata intelligenza e cultura, ma soprattutto la superficialità e presunzione.
Ciao
Ciao, amici lettori
Chi non sa che ciao, termine che le grammatiche classificano fra le interiezioni (parte invariabile del discorso che da sola esprime un vivace e improvviso sentimento dell'animo: paura, gioia, meraviglia, dolore, ansia, repulsione ecc.) è una forma familiare di saluto scambiato incontrandosi o accomiatandosi: ciao, come stai? Ciao, come va?
Si adopera anche a chiusura della corrispondenza fra parenti e amici: ciao, ti saluto e ti abbraccio. Si usa, inoltre, per esprimere una certa rassegnazione riguardo a una cosa definitiva e spiacevole: se ne andò con tutti soldi, e ciao! Pochi, forse, conoscono la sua origine.
Vediamo, dunque, come è nato questo "ciao". C'è da dire, innanzi tutto, che a dispetto dei detrattori dei vernacoli italiani, il ciao è un contributo che il dialetto veneziano ha dato alla lingua nazionale. Un tempo, infatti, questa particolare forma di saluto era adoperata esclusivamente nell'Italia settentrionale, nel Veneto in particolare.
Chi direbbe, però, di primo acchito, che questa parola veneziana non è altro che l'italiano schiavo? Perché proprio di schiavo si tratta. Sclavus nel tardo latino significava semplicemente slavo. In seguito per il fatto che in Germania, nell'Alto Medio Evo, alcune etnìe slave furono ridotte allo stato di servi, il termine acquisì l'accezione generica di servo, di schiavo.
Arriviamo, così, al Settecento. A Venezia — nel XVIII secolo — il termine schiavo, s'ciao in dialetto, era divenuto formula di omaggio e di riverenza: il prode cavaliere si profferiva servitore (s'ciao) nei riguardi della dama. Il signore si accomiatava dagli amici con un "vi son schiavo".
In men che non si dica s'ciao raggiunge rapidamente il Piemonte, la Lombardia, l'Emilia e per adattarsi alle labbra dei parlanti — durante il cammino — perde la s iniziale divenendo semplicemente ciao e con il trascorrere del tempo perde anche il valore etimologico originario divenendo formula familiare di saluto.
Sebbene e sibbene
Si presti attenzione molta attenzione ai due termini in oggetto perché spesse volte vengono confusi e adoperati, quindi, arbitrariamente. Pure essendo entrambi congiunzioni hanno significati completamente diversi.
Sebbene è una congiunzione subordinante e vale quantunque, nonostante (o non ostante), benché e introduce, per tanto, una proposizione concessiva, con il verbo tassativamente al modo congiuntivo: Luigi, sebbene fosse ammalato, si recò regolarmente al lavoro. Molto spesso il verbo è sottinteso (si ha, quindi, una proposizione concessiva ellttica del verbo). sebbene controvoglia (o contro voglia), lo assecondai.
Sibbene, invece, è una congiunzione con valore avversativo e sta per ma, bensì e si usa dopo una proposizione negativa: non abbatterti, sibbene reagisci alle avversità della vita.

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