Ratire
Ci scrive Ludovico L.: «Pregiatissimo Dott. Raso, ancora una volta approfitto della sua nota cortesia per un ulteriore quesito. Mi è capitata sotto gli occhi una pagina di un giornale (non so di quale anno) in cui era incartato il pesce che mia moglie aveva acquistato al mercato. Un titolo ha attirato la mia attenzione: “Il malcapitato, ratente, è stato trasportato subito in ospedale”. Che cosa significa ratente? Credo sia superfluo dirle che i vocabolari, da me consultati, non mi hanno risposto. Spero in lei. Ringraziandola anticipatamente dell’eventuale risposta, le porgo i miei più cordiali saluti. Ludovico L.»
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Cortese Ludovico, ratente è il participio presente del verbo ratire e significa rantolare. Il poverino, quindi, già rantolava quando è stato trasportato in ospedale.
Onestamente non so dirle perché il suddetto verbo sia ignorato dai vocabolari non essendo stato ancora relegato, credo, nella soffitta della lingua.
Ho fatto una piccola ricerca nella Rete, mi sembra lo attesti solo il sito Garzantilinguistica.it. Faccio il copincolla:
«[ra-tì-re] Lat. volg.
*ragitare 'muggire, strillare', con cambio di coniugazione
v. intr. [io ratisco, tu ratisci ecc. ; aus. avere]
(ant.) rantolare; emettere l'ultimo respiro».
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Non fate gli indiani...
Siamo stati sommersi dai messaggi di alcuni lettori che, spalleggiati dai vocabolari, ci hanno contestato la correttezza di comproduzione: a loro avviso la grafia corretta è coproduzione. Poiché non è nostro costume dare informazioni errate, soprattutto per ciò che concerne la Lingua, affidiamo la nostra difesa al Dizionario Linguistico Moderno del compianto glottologo Aldo Gabrielli:
«Coproduzione è brutto neologismo, specialmente del gergo cinematografico. In buon italiano il prefisso co- (per con-) si costruisce solo dinanzi a vocale: coabitazione, coincidenza, cooperare, coutente. In ogni altro caso si ha il prefisso con-, mutato anche in com- o assimilato. La forma
logica e giusta dovrebbe essere, quindi, comproduzione».
E aggiunge che la forma coproduzione anche se in uso è errata. Riteniamo doveroso, per tanto, soffermarci, ancora una volta, sul corretto uso del prefisso con-.
Detto prefisso perde la n davanti a parole che cominciano con vocale: coautore, coinquilino; muta la n in m davanti alle parole che cominciano con le consonanti b e p: combaciare, comproprietario (a proposito: perché si può dire benissimo comproprietario e non si può dire, invece, comproduttore? Non è lo stesso caso?); si assimila davanti a parole che cominciano con le consonanti l, r, m: collaboratore, correlatore, commilitone.
L’assimilazione, ricordiamolo, è un processo linguistico per cui dall’incontro di due consonanti la prima diventa uguale alla seconda, cioè si “assimila”.
Tornando alla parola incriminata, comproduzione, facciano attenzione i produttori cinematografici quando mettono sulla piazza un film in coproduzione perché — come fa notare il Gabrielli — quel copro iniziale ci richiama alla memoria altri composti come coprofagia, coprocoltura dove quel copro, derivato dal greco, sta a significare sterco. Un film in coproduzione, quindi…
Amici della carta stampata e no, non fate gli indiani, sapete benissimo di avere un gravoso compito: educare la gente anche e soprattutto sotto il profilo linguistico. Non diffondete parole errate come, per l’appunto, coproduzione.
Ah, dimenticavamo. Crediamo sia chiaro a tutti il significato dell’espressione fare l’indiano, ossia far finta di non capire. Questa locuzione è nata dalla figura dell’indigeno stereotipato, esattamente dell’abitante delle Indie occidentali, che agli occhi degli uomini europei appariva assente, sbalordito, dando la chiara impressione, appunto, di non capire.
Vai a scuola? No, ozio...
Probabilmente i ragazzi che frequentano le classi ginnasiali e gli stessi docenti non sanno che — stando all'etimologia — dovrebbero entrare nelle aule scolastiche in costume adamitico. Sì, proprio così. Scherzi dell'etimologia.
Ma andiamo con ordine cominciando col vedere l'origine della scuola. Sembrerà inverosimile, ma la scuola, che per moltissimi giovani (e per noi ai nostri tempi) è associata al lavoro, alla pena, alle ansie, alle notti in bianco e, talvolta, a qualche benevolo e paterno scapaccione, quando è nata voleva dire esattamente il contrario: riposo, ozio e, perché no?, pacchia.
Scuola, infatti, viene dal greco σχολή (scholé) che significa, per l'appunto, riposo, ozio. Ciò si spiega con il fatto che nell'antichità (Grecia e Roma) i soli che si dedicassero agli studi erano gli uomini i quali, quando erano liberi da impegni bellici o dai lavori dei campi, ne approfittavano per dedicarsi alla cura della mente, dello spirito.
Quei pochi momenti liberi che potevano riservare alla cura dell' ‘animo', della mente — tra una guerra e l'altra — erano considerati un piacevole riposo, uno svago anche (e, forse, soprattutto) perché per la mentalità dell'epoca coloro che si dedicavano allo studio anziché alle armi o al lavoro dei campi, non lavoravano, oziavano. La scuola, dunque, era un… ozio.
E veniamo al ginnasio, che nell'accezione moderna — come recitano i vocabolari — è un corso di studi classici in due anni al quale possono accedere i ragazzi in possesso della licenza media; biennio del liceo classico.
Anche il ginnasio, nell'antichità, quando è ‘nato' aveva tutt'altro significato: presso i Romani e i Greci era un luogo pubblico dove i giovani si addestravano alla lotta, alla corsa e al lancio del disco; era, insomma, una palestra.
L'origine della parola è anch'essa greca, γυμνάσιον (gymnàsion, luogo per esercizi ginnici), da γυμνός (gymnòs, nudo); e ciò perché i giovanotti che frequentavano il ginnasio, vale a dire la palestra, erano in abiti assolutamente adamitici.
Come si è giunti all'evoluzione della parola? Cioè a luogo di studi classici? È presto detto. Molto spesso il ginnasio era circondato di portici con sedili dove - col tempo - maestri e filosofi sedevano per provvedere — dopo il pugilato, i salti, le corse - all'addestramento spirituale di quei baldi giovani. Il nome finì, quindi, con l'indicare anche la palestra della mente.

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