Pillole di (buona) lingua
Chi ama la lingua non segua l'esempio di taluni scrittori che fanno seguire il verbo preferire dalla preposizione di e un altro verbo all'infinito: preferisco di non esprimermi al riguardo; preferisco di dormire invece di andare a passeggio.
L'uso "corretto" respinge la preposizione di: preferisco non esprimermi... Premesso che la
lingua non si "fa a orecchio", non sentite come quella preposizione stoni... agli orecchi? Alcuni, addirittura, e questo è un vero e proprio errore, adoperano il verbo suddetto come una sorta di comparazione facendolo seguire dall'avverbio piú: preferisco piú l'automobile al treno.
Si dirà, correttamente, preferisco l'automobile al treno; oppure, mi piace di piú l'automobile che il treno.
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È invalso l'uso, "non ortodosso", di adoperare la locuzione rispetto a... come termine di paragone o di contrapposizione.
Chi ama il bel parlare e il bello scrivere non la usi, anche se c'è l' "imprimatur" di alcuni vocabolari. Una città, per esempio, è piú o meno bella di un'altra (non rispetto a un'altra); cosí come non si dirà che i sindacati rispetto agli industriali rivendicano piú investimenti; si dirà, "correttamente": i sindacati, nei confronti degli industriali, rivendicano piú investimenti.
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Le persone che amano scrivere e parlare correttamente dovrebbero prestare molta attenzione — a nostro avviso — sull'uso del verbo impegnare, adoperato molto spesso in modo improprio (con la "complicità" — sempre a nostro avviso — di alcuni vocabolari permissivi).
Questo verbo, dunque, composto con il prefisso "in-" e il sostantivo "pegno", propriamente significa dare qualcosa in pegno (anche metaforicamente): il Tizio ha impegnato tutti i mobili di casa per pagare il debito; ha impegnato il suo onore (uso metaforico) in questa faccenda.
Non è adoperato correttamente — come molti fanno, alla testa i mezzi di comunicazione di massa — nel significato di "attaccare battaglia" (i soldati hanno impegnato una feroce battaglia); nel significato di "prenotare un tavolo" (ho impegnatoun tavolo per domani sera); nel significato di "occupare una corsia" e simili (l'automobile ha impegnatola corsia di emergenza).
"Avvenire" e "a venire" - a nostro modo di vedere - non sono la "stessa cosa"; non si potrebbero adoperare indifferentemente. "A venire" è una locuzione con valore aggettivale; "avvenire" è un sostantivo. Scriveremo, dunque, l'"avvenire" dei giovani e gli anni "a venire", cioè gli anni futuri, che devono venire.
Essere in balía di qualcuno
Per la spiegazione e l'origine di questo modo di dire che — come tutti sappiamo — significa "sottostare all'autorità, al potere assoluto di qualcuno", occorre prendere il discorso alla lontana e rifarsi, come il solito, al solito latino. Vediamo, dunque, che cosa è questa "balía", che con il mutar d'accento cambia anche di significato, pur discendendo dalla stessa "madre".
Balia (senza accento sulla i, si badi bene) discende dal latino "bailus", che significa "portatore", "facchino"; il femminile "baiula" era, quindi la portatrice (di bambini). Il verbo "baiulare" significava, infatti, "portare pesi", e i bambini — lo sappiamo benissimo — pesano.
Con il trascorrere del tempo, attraverso l'uso traslato o figurato, si cominciò con il chiamare "bailus" colui che portava sulle spalle non un peso materiale sibbene morale. Il termine, a questo punto, acquistò di volta in volta l'accezione di "tutore", "precettore" (i tutori e i precettori portano sulle spalle il peso morale dell'educazione dei fanciulli) per arrivare, addirittura, al significato di governatore. L'italiano "bailo" era, infatti, ai tempi della Repubblica di Venezia, il titolo che spettava agli ambasciatori della Serenissima accreditati in Turchia.
I nostri cugini di Francia mutarono "bailo" in "baile", dando questo titolo ai ministri di Stato e ai grandi dignitari di corte. La storia di questo "facchino", però, non finisce qui. I discendenti dei Franchi da "baile" coniarono "bailli", da cui il nostro "balí", che dagli inizi del secolo XII fino a tutto il secolo XVII designava un alto ufficiale addetto all'amministrazione della giustizia in nome del re o dei vari signori.
Dal francese "bailli" nasce, quindi, un nuovo sostantivo, "baillie", attraverso il quale si indicava l'autorità, il potere e la funzione di questo personaggio. Ma non finisce ancora. L'italiano muta il termine gallico "baillie" in "balía" (con la i accentata, per distinguerlo da balia, che ha tutt'altro significato) e noi lo adoperiamo per tutto il periodo medievale per designare il potere assoluto conferito alle magistrature ordinarie.
Balía, per tanto, con l'accezione di "potere", "autorità" lo troviamo nell'espressione "essere in balía di qualcuno" e nei vari sensi figurati: "essere in balía delle onde", "essere in balía del vento".
Saltare e salire
Due parole due, su... due verbi "fratelli" che possono essere tanto intransitivi quanto transitivi e possono prendere entrambi gli ausiliari (essere e avere) a seconda del contesto: saltare e salire.
Cominciamo con il primo, che prenderà l'ausiliare avere se si considererà l'azione in sé stessa: la fanciulla ha saltato per tutta la giornata; l'ausiliare essere, invece, se si mette in evidenza l'azione del verbo in rapporto a un luogo di arrivo o di partenza: l'operaio è saltato dal tetto.
Alcuni lo usano come sinonimo del verbo culinario "rosolare": carne saltata in padella e simili. Con questo significato rispecchia il francese "sauter". Chi ama il bel parlare e il bello scrivere lo aborrisca.
E veniamo a salire. Per quanto attiene all'uso degli ausiliari valgono le medesime 'regole' riportate per il verbo fratello saltare: Giovanni ha salito senza mai riposarsi; l'operaio è salito sul tetto per ripararlo.
Un'ultima annotazione. Le forme con l'infisso "-isc-" (salisco, salisce, saliscono, salisca ecc.) sono popolari e da evitare in buona lingua italiana.

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