«Il pozzo di San Patrizio»
«Papà, ho bisogno di centocinquanta euro per la revisione completa della motocicletta», disse il giovane Raimondo appena entrato in casa, di ritorno da un viaggio in lungo e in largo per l’Italia. Il padre, risentito per le pretese del figlio, sbottò, «Io vivo di stipendio, figliolo, non ho il Pozzo di San Patrizio!».
Quante volte, anche a voi sarà capitato di dire frasi del genere, inconsciamente, per mettere in evidenza il fatto che non si possiede una fonte di ricchezza inesauribile, come sta a significare, appunto, l’espressione “avere il pozzo di San Patrizio”. Vediamo, allora, come è nata questa locuzione, anche se il suo uso è improprio. Narra una leggenda che questo pozzo altro non era che una profondissima caverna – situata in un’isola del lago Derg, in Irlanda – rivelata da Cristo, nel VI secolo, al santo patrono di quella nazione, il vescovo Patrizio e da questo miracolosamente aperta per convincere gli Irlandesi e convertirli alla fede cristiana. Sempre secondo la leggenda, dal “pozzo” si poteva intravedere una “via” che menava all’ Aldilà. Coloro che vi si trattenevano in preghiera, ininterrottamente, per un giorno e una notte, ottenevano la remissione dei peccati.
Quest’espressione, dicevamo, è adoperata impropriamente per indicare una fonte di denaro ritenuta inesauribile da colui che vi attinge. A questo proposito potremmo azzardare l’ipotesi secondo la quale la “via” del pozzo era molto lunga, “inesauribile”, da qui, per l’appunto, il detto popolare “avere o essere il pozzo di San Patrizio.
Quattro chiacchiere con il signor Zaffíro
Incontriamo il sig. Zaffíro negli studi di una televisione privata: sta per essere venduto all’asta a un prezzo che egli non ritiene “adeguato” alla sua persona.
Ma non è questo che lo irrita tanto, quanto il fatto che la maggior parte delle persone (anche quelle “acculturate”) pronunciano il suo nome in modo errato: con l’accento sulla ‘a’ anziché sulla ‘i’.
Ciò lo rende nervoso e scostante, ma vista la nostra garbata insistenza accetta di riceverci.
- Allora, signor Zàffiro, mi scusi Zaffíro, ha fatto una ricerca particolare sul suo nome? Come mai si irrita se la chiamano Zàffiro, con l’accento sulla ‘a’?
- Lei al mio posto che farebbe? Accetterebbe con serenità il fatto che tutti, o quasi, pronunciano in modo scorretto il suo nome? Non si sentirebbe offeso vedendo calpestata la sua “personalità”?
- Ci parli della sua ricerca. Perché la pronuncia corretta è piana, ossia con la ‘i’ tonica, vale a dire accentata?
- Come lei certamente saprà, la maggior parte dei vocaboli della nostra lingua sono piani; ma non è questo il “vero” motivo: la mia discendenza è nobile vengo, infatti, dalla lingua classica, dall’aristocratico latino “sapphírus”, con tanto di ‘i’ lunga che in italiano si deve sentire e, per questo, deve essere accentata nella pronuncia. Naturalmente nella lingua parlata, non in quella scritta. Per essere estremamente chiaro aggiungerò che il latino “sapphírus” non è altro che l’adattamento del greco “sàppheiros” derivato, a sua volta, dal semitico “sappír”.
- Se può esserle di consolazione, sappia che altri signori, al pari di lei, vedono il loro nome “storpiato”: il verbo ‘valutare’, per esempio. Tutti dicono io vàluto e non valúto, con l’accentazione sdrucciola invece di quella corretta piana.
- Sí, lo so. Ho fondato un’associazione cui possono iscriversi tutti coloro che ritengono errata la pronuncia del proprio nome. Lo scopo è quello di sensibilizzare la gente sul problema dell’esatta pronuncia delle parole.
- Può prendersi la responsabilità di spiegarci il motivo per il quale il signor Valutare, durante la sua coniugazione, deve avere l’accentazione piana?
- Senz’altro. I motivi sono due. Il primo, che potremmo definire “logico”, si richiama all’accentazione dell’infinito: se un verbo, all’infinito, ha l’accentazione piana non si capisce perché deve cambiarla nel corso della coniugazione. Questa regola, però, ha le sue brave eccezioni che in questa sede non è il caso di citare. L’altro motivo è rappresentato dal fatto che un verbo conserva l’accento che ha il sostantivo corrispondente. Questa semplice regoletta è molto piú “sicura” della precedente. Qualche esempio renderà tutto piú chiaro. Il sostantivo corrispondente del verbo valutare è la valúta (moneta). Diremo, quindi, io valúto perché si dice la valúta, non la vàluta. Io dèrogo perché si dice la dèroga e non la deròga. Da ricordare, inoltre, che in linea di massima un verbo composto mantiene l’accento del verbo sul quale è formato.
- La ringraziamo per la sua gentilezza e per le sue preziosissime delucidazioni.
- Mi consenta ancora due parole.
- Prego…
- Perché nei casi dubbi la gente non ricorre all’ausilio di un buon vocabolario?
- Ha perfettamente ragione.
Perché quando si festeggia si dice hip hip urrà?
Secondo alcuni studiosi, questa abitudine deriverebbe dagli usi militari del Settecento: “Huzzah!” era l’urlo di gioia dei marinai inglesi dell’epoca.
Questa espressione gergale sarebbe passata nella lingua inglese (“hurra”) e poi in quella francese (“hourra”), prima di essere adottata, nell’800, anche in Italia.
Secondo altri, all’origine dell’incitamento ci sarebbe l’urlo di battaglia dei soldati prussiani d’inizio Ottocento, oppure quello dei cosacchi lanciati all’attacco.
“Hip” deriverebbe invece da “hep” o “hup”, usati per cadenzare il ritmo di marcia dei soldati. Lo stesso grido veniva però usato da pastori e carrettieri per incitare gli animali. Altre ipotesi lo farebbero derivare dall’acronimo della frase latina Hierusalem est perdita (“Gerusalemme è in rovina”) con cui i Romani annunciarono nel 135 d. C. la distruzione della città. Oppure dal grido di scherno “Hep! Hep!” che accompagnava le persecuzioni contro gli ebrei in Europa orientale, ai primi dell’Ottocento.

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