La carcere

Il figliolo di un nostro amico ha rimediato un’insufficienza in un componimento in classe perché ha scritto una carcere anziché un carcere, come gli ha fatto rilevare il suo professore di lingua e letteratura italiana. Ci dispiace immensamente per il figlio del nostro amico, ma ci dispiace ancora di più per la pochezza linguistica dell’insegnante di scuola media superiore: l’alunno sbagliando non ha... sbagliato. Ci spieghiamo meglio.
Carcere – e il professore dovrebbe saperlo – nel singolare può essere tanto di genere maschile quanto di genere femminile, anche se quest’ultimo è di uso, per lo più, letterario. Vediamo, per sommi capi, la sua storia per capire la nascita dei due generi.
Il termine carcere, dunque, indica contemporaneamente il luogo, o meglio l’edificio, ove viene scontata la pena e la pena medesima: lo hanno rinchiuso in carcere; gli hanno dato due anni di carcere. In quest’ultimo senso era molto comune, nei tempi andati, l’espressione carcere duro (e ciò spiegherebbe il genere maschile) con cui veniva indicata una pena particolarmente rigorosa.
Silvio Pellico, nelle Mie prigioni, descrive minuziosamente questo tipo di pena: «Essere obbligato al lavoro, portare la catena ai piedi, dormire su rudi tavolacci, e mangiare il più povero cibo immaginabile». Da questa espressione singolare maschile è nato il normale plurale maschile: carceri duri.
Carcere, quindi, nel singolare può essere sia maschile sia femminile, in quest’ultimo caso rispetta la regola dei sostantivi in -e che sono, in buona parte, di genere femminile. Per concludere possiamo affermare che carcere nel singolare è maschile se indica la pena: cinque anni di carcere; carcere preventivo; femminile se indica il luogo: una carcere fatiscente.
C’è da dire, però, che nell’uso i due generi si confondono (e confondono i professori) con una netta prevalenza del maschile. Nel plurale sarà tassativamente femminile: le carceri.
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14-03-2010 — Autore: Fausto Raso