Essere e avere: quale adoperare?
«Gentilissimo dott. Raso,
approfitto della sua competenza e cortesia per un altro quesito. I verbi ausiliari essere e avere — lo sappiamo — si adoperano per la formazione dei tempi composti; spesso, però, sono in dubbio su quale ausiliare adoperare. C'è una regola in proposito? Grazie e cordialità.
Severino A.
Rovigo»
Caro amico, non è possibile (oltretutto non esiste) dare una regola precisa circa l'uso dei due ausiliari; un buon vocabolario è indispensabile.
Possiamo dire, in linea di massima, che l'ausiliare essere si adopera con i verbi impersonali, con i verbi riflessivi e per la forma passiva dei verbi transitivi.
Avere, invece, si usa per la formazione dei tempi composti di tutti i verbi transitivi, di quelli intransitivi che indicano un movimento o moto fine a sé stesso (ho corso, ho volato) o esprimono un'attività dello spirito e del corpo (ho pensato, ho dormito).
Da notare, ancora, che spesso l'uso dell'uno o dell'altro ausiliare fa cambiare il significato del verbo principale: ho mancato (ho commesso una colpa); sono mancato (non ero presente).
Guardi anche ciò che dice, in proposito, l'Accademia della Crusca.
Un buon candiero
Si avvicina l'estate e che c'è di meglio di un buon candiero gelato?
Forse nessuno dei nostri lettori conosce questo termine perché non attestato nei vocabolari. Si tratta di una bevanda a base di zucchero, latte e uova.
E se i vocabolaristi lo rimettessero a lemma?
Il bestiame e il denaro
Nelle nostre modeste noterelle abbiamo sempre scritto che se c\'è una scienza interessantissima questa è l\'etimologia, vale a dire la scienza che ha per oggetto lo studio dell\'origine delle parole di una lingua. Questa branca della linguistica ci permette di scoprire cose... inaspettate.
Chi avrebbe mai immaginato, infatti, che l\'aggettivo pecuniario in origine non aveva nulla che vedere con il denaro? Per saperne di più diamo la parola a Lodovico Griffa.
«(Pecuniario) è aggettivo di origine dotta e deriva dal latino pecunia (denaro) che non è passato direttamente nella lingua italiana. A sua volta il termine latino deriva da pecus (bestiame). Evidentemente per i nostri antichissimi antenati, dediti alla pastorizia in territori non ancora ben divisi e dai confini incerti, la ricchezza consisteva nel numero di capi di bestiame che la famiglia possedeva e da cui ricavava sostentamento e qualche possibilità di scambio con altri.
Il bestiame, insomma, sostituiva il denaro. In tempi di più avanzata civiltà, quando già da secoli correva sui mercati come denaro il metallo coniato, il termine pecunia, non avendo più riferimento con la realtà concreta, fu soppiantato nella parlata popolare da solidus (da cui soldus e poi soldo) e da denarius, che indicavano due monete (il nummus aureus e il denarius) correnti ai tempi dell\'impero, visibili e toccabili, anche se spesso non possedute da tutti.»
Così pecunia rimase nel latino letterario e scritto e morì con esso, mentre soldus e denarius passarono nel volgare (l\'italiano). Si possono sentire talvolta in italiano frasi come ho poca pecunia, occorre molta pecunia e simili.
Sono frasi di gergo dotto, cioè usate nella cerchia di persone sulla cui parlata influiscono i ricordi di scuola. Nel gergo udremo invece: ho poca grana; occorre molta grana. L\'italiano medio, non dotto e non gergale, suona invece ho poco denaro.
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