Gli [accattapane] o gli [accattapani]?
Sì, saremo colpiti dagli strali dei lessicografi e dei linguisti ufficiali perché quanto stiamo per scrivere contraddice quanto riporta la quasi totalità (?) dei vocabolari dell'uso, vale a dire l'invariabilità del sostantivo [accattapane].
A nostro modo di vedere, invece, questo sostantivo si pluralizza normalmente perché appartiene alla schiera dei nomi composti formati con una voce verbale e un sostantivo maschile singolare.
I nomi così composti, dunque, prendono la normale desinenza del plurale: passaporto / passaporti; parafango / parafanghi; accattapane / accattapani. Resterà invariato solo se riferito a un femminile: Lorella e Vanessa sono proprio delle accattapane. Ma: Luigi e Giuseppe sono degli accattapani.
Il dizionario Tommaseo-Bellini sembra darci ragione. La forma plurale, accattapani, si trova anche in alcune pubblicazioni ottocentesche.
Fare la pacchia
«Sbrigati, alzati, la pacchia è finita», urlò il padre al figlio. «Finalmente anche tu conoscerai i sacrifici da affrontare per guadagnarsi un tozzo di pane».
«Fare la pacchia», cioè godersi la vita senza alcun pensiero; aver trovato il modo di vivere bene, di mangiare e bere senza lavorare. Quest'espressione è tratta dal mondo animale.
La [pacchia], dal latino pabula, plurale di pabulum (pascolo), indicava — un tempo — la pastura per gli
animali. Questi, infatti, hanno la loro [pacchia]: mangiano e bevono senza lavorare.
Da pacchia è stato coniato il verbo denominale [spacchiare] (non attestato in tutti i vocabolari), come si può leggere nel Tommaseo-Bellini:
«[V. n. pass. Mangiar con piacere o abbondantemente checchessia. (Man.) — Rammenta Pabulum, e il gr. Παχὺς, grasso, pingue.
2. Val. Spacchiarsela. Passarsela, Godersela. Fag. Rim. 6. 212. Al mormorio d'un fonte… M'addormento la state, e me la spacchio. E 6. 240. Cantar lo lascia a ufo, e se la spacchia. G.M. E altrove: Egli intanto se la spacchia, E fa ognor pompa solenne.
G.M. Per estens. Sono stato a sentire la Semiramide di Rossini, e mi ci sono proprio spacchiato (me la son goduta).]»
Essere (o fare) l'oracolo
Questo modo di dire è particolarmente noto e adoperato a ogni piè sospinto dalle persone che — ironicamente — vogliono mettere in evidenza la presunzione di qualcuno: è l'oracolo! Si usa anche — e in questo caso senza ironia — in riferimento a una persona di grande autorevolezza: ha parlato l'Oracolo. In questo caso — scrivendo - la o si mette maiuscola in segno di rispetto e di stima.
Ma cos'è questo oracolo? È il latino oracolum, dal verbo orare (dare risposte). Pur provenendo dal latino, però, l'oracolo era la tipica istituzione del mondo greco antico in quanto era il responso (risposta) che una determinata divinità dava a chi l'interrogava.
Con il trascorrere del tempo, per estensione, il vocabolo passò a indicare il luogo in cui venivano richiesti i responsi, la divinità stessa e la persona che faceva da mediatrice (oggi diremmo il medium) tra il petente e la divinità traducendo le parole, generalmente oscure.
Gli Oracoli, intesi come mediatori e, quindi, come sacerdoti erano, il più delle volte, donne, chiamate Pizie o Sibille, donde il termine sibillino, cioè oscuro, misterioso. Ciò che diceva l'Oracolo era considerato di indubbia verità e gli eventuali ordini che impartiva dovevano essere puntualmente eseguiti.
Di qui, per l'appunto, l'uso figurato e spesso ironico della locuzione: ha parlato l'oracolo, non contradditelo!
- Dizionario italiano
- Grammatica italiana
- Verbi Italiani
- Dizionario latino
- Dizionario greco antico
- Dizionario francese
- Dizionario inglese
- Dizionario tedesco
- Dizionario spagnolo
- Dizionario greco moderno
- Dizionario piemontese